Quel che vi serve sapere: Il Teschio Rosso si è impadronito delle letali Sentinelle, create per cacciare, imprigionare o eliminare i mutanti e le ha riprogrammate per attaccare anche i comuni esseri umani per poi minacciare di devastare gli Stati Uniti se questi non si fossero arresi. Solo gli sforzi combinati dei Vendicatori e dei Vendicatori Segreti sono riusciti a bloccare i piani del crudele nazista.

Le Sentinelle sono state disattivate, l’organizzazione del Teschio Rosso sostanzialmente smantellata e lo stesso Tesco Rosso ha subito un’umiliante sconfitta per mano della sua antica nemesi Steve Rogers e della nuova Capitan America. La città di Washington ha subito molti danni ma si risolleverà.

Tutto è bene quel che finisce bene, quindi? Non esattamente.

IL RIPOSO DEL GUERRIERO

Di

Carlo Monni, & Carmelo Mobilia

 

 

 

Washington D.C.

 

Solo pochi istanti prima il Teschio Rosso, saldamente ammanettato, stava per essere caricato su un veicolo dello S.H.I.E.L.D. che lo avrebbe portato in una prigione super sicura quando un proiettile sparato dall’alto lo aveva raggiunto alla testa apparentemente uccidendolo all’istante.[1]

Ora il cadavere giaceva su una lettiga coperto da un lenzuolo dopo che un medico legale fatto arrivare in fretta e furia ne aveva certificato la morte.

<Ti immaginavi che sarebbe finita così, Steve?> chiese Bucky Barnes, il Soldato d’Inverno al suo mentore e capo del gruppo noto informalmente come Vendicatori Segreti.

<Non sono affatto sicuro che sia finita Buck.> replicò, cupo, Steve Rogers.

<Che vuoi dire? Il Teschio non potrebbe essere più morto di così.>

<Uno dei… collaboratori del Teschio, uno scienziato di nome Arnim Zola ha sviluppato un sistema che permette alla coscienza umana di trasmigrare da un corpo ad un altro al momento della morte. È così che ha salvato la vita di Hitler e lo ha fatto rivivere nei panni del Seminatore d’Odio dopo che la Torcia[2] lo aveva incenerito.>

Lo stupore nel volto di Bucky non poteva essere più evidente.

<Hitler? Non… non mi stai prendendo in giro, vero, Steve?>

<Mi piacerebbe, ma è la verità: in questo stesso momento il Teschio Rosso potrebbe stare risvegliandosi chissà dove in un nuovo corpo clonato dal suo.>

<Allora è stato tutto per niente.> commentò Bucky sconsolato guardando il moncherino del suo braccio sinistro. Quello bionico che aveva sino a poco prima era stato distrutto durante lo scontro finale in cui lui stesso aveva rischiato di rimanere ucciso.

James Buchanan Barnes non era il tipo da lamentarsi apertamente di essere rimasto menomato ma chi lo conosceva bene come Steve capiva quanto la cosa lo facesse soffrire. Il braccio bionico leniva solo in parte il fatto di aver perso il suo vero braccio sinistro in quella maledetta esplosione nel 1945,[3] un’altra cosa per cui Steve si sentiva in colpa. Forse avrebbe dovuto presentargli Dave Cox, il veterano diventato pacifista dopo aver perso il braccio destro in guerra. Chissà che stava combinando in quei giorni? Pensare a Dave gli fece tornare in mente Sharon Carter. Non la vedeva da poco dopo il ritorno da Rio Valiente[4] e non si erano lasciati in buoni rapporti. Comunque stessero le cose tra loro, lui non poteva certo trascurare la bambina, visto che quasi certamente era anche…

<Ehi, Rogers, stavi sognando ad occhi aperti?>

La voce burbera di Nick Fury lo riscosse dai suoi pensieri.

<Qualcosa del genere.> ammise <Come stanno andando le cose?>

<Beh… non abbiamo idea di chi ha sparato al Teschio Rosso o perché. A quel tipo non mancavano certo i nemici… compresi noi.>

Steve fece un amaro sorriso.

<Questo è certo.> disse, poi aggiunse <Non è così che volevo che andassero le cose: lo volevo davanti a un tribunale, che pagasse per i suoi crimini secondo giustizia. Per lui sarebbe stato peggio della morte.>

<Ti capisco ma ormai è andata così.> replicò Fury <Sto facendo portare il cadavere del Teschio a New York nel nostro Quartier Generale. Spero che esaminandolo i nostri cervelloni possano capire... beh tu sai cosa.>

<Già… lo so. Per il resto?>

<Un bel po’ di danni alle cose ma sorprendentemente solo pochissimi feriti e nessun morto tra i civili.  Tu ed i tuoi amici avete fatto un buon lavoro.>

<Solo quello che andava fatto, sergente, solo quello che andava fatto. Notizie di Sin e Crossbones?>

<Spariti dalla faccia della Terra… ma li ritroveremo dovunque siano.>

 

 

Da qualche parte sopra l’Oceano Atlantico.

 

Nella navicella usata da Crossbones per la fuga, Sin rinvenne e il suo primo istinto fu di scagliarsi su di lui.

<Tu… bastardo… hai abbandonato mio padre.> urlò.

Approfittando del fatto che alla guida c’era Madre Notte, anche lei sopravvissuta chissà come alla distruzione dell’isola del Teschio, Crossbones l’afferrò per i polsi.

<Calmati, baby.> le disse <Quello che ho fatto davvero è stato evitare che venissimo presi anche noi. Ora escogiteremo un piano per farlo evadere e poi tutti insieme ci vendicheremo, te l’ho promesso, no?>

<Dagli retta, bambina.> intervenne Susan Scarbo <Tuo padre avrebbe fatto lo stesso.>

<Li voglio morti: Rogers e quella puttana di Capitan America… lei per prima.> affermò Sin calmandosi. Almeno apparentemente.

<E sarà esattamente quel che accadrà, te lo prometto. Per fortuna tuo padre aveva preparato delle basi di emergenza in caso di guai e io le conosco tutte. Ci leccheremo le ferite e penseremo al da farsi. Ti no già detto che ho qualche idea no?>

<E allora parlamene.>

Sin sembrava essersi calmata ma sia Crossbones che Madre Notte sapevano che era solo la calma apparente prima della tempesta

 

 

Una villa a Brighton Beach, Brooklyn, New York.

 

Alexander Vassilievitch Lukin si preparò per la sua videoconferenza, ma prima azionò un dispositivo che avrebbe fatto apparire sullo schermo della sua interlocutrice una maschera da Teschio Rosso al posto del suo volto, in modo da mantenere il suo anonimato, dopodiché si rivolse alla donna dall’altra parte dello schermo. Era una donna molto attraente, dai capelli neri e occhi azzurri, che indossava una specie di tuta nera reminiscente di quelle dell’A.I.M.[5]

<Devo farle i miei complimenti Dottoressa Rappaccini…> le disse <… l’arma che mi ha fornito ha funzionato alla perfezione, proprio come aveva detto.>

La donna fece un sorriso che a Lukin fece venire in mente un cobra e ribatté:

<<Le Avanzate Idee di Distruzione garantiscono sempre i propri clienti. Il nostro motto è: soddisfatti o rimborsati.>>

<Ebbene, io sono decisamente soddisfatto.>

<<Ne sono lieta. Per ogni altra sua necessità nel campo delle “armi speciali” l’A.I.D. è a sa disposizione… per il giusto prezzo s’intende.>>

<S’intende. Buona giornata Dottoressa.>

La comunicazione terminò e Lukin si alzò per recarsi in terrazza.

Sarebbe stata un’ottima giornata pensò, ed era solo l’inizio.

 

 

Il giorno dopo, Manhattan, Quartier Generale dei Vendicatori Segreti

 

Amadeus Cho finì di innestare il braccio bionico nella spalla sinistra di Bucky.

<Questo è il meglio che posso fare per ora.> disse <Per fortuna avevo tenuto il braccio che ti avevano dato i Russi. Tra poco tempo sarà pronto quello nuovo e te lo metterò al posto di questo.>

<Va bene anche così.> rispose Bucky <È un po’ più rigido di quell’altro, forse, ma ci ero abituato.>

<Bene, gente ho delle novità per voi.> disse Steve Rogers e dette ai presenti delle carte magnetiche plastificate.

<Cosa sono?> chiese Yelena Belova, la Vedova Nera.

<Delle communicard, esattamente come quelle dei Vendicatori, con accesso ovunque al loro database.> rispose Steve <Autorizzate da Iron Man quale Presidente in carica dei Vendicatori. Dice anche che possiamo ufficialmente chiamarci Vendicatori Segreti.>

<Dai! Che figata!> commentò Amadeus sgranocchiando una merendina.

<Le avete tutti?> chiese ancora Steve <Bene… allora posso anche dirvi che… da oggi e fino alla prossima emergenza siete tutti in licenza. Abbiamo tutti bisogno di staccare la spina, specie dopo quanto abbiamo passato nelle ultime ore. Rompete le righe, ragazzi> sorrise Steve <Prendetevi un po’ di tempo per voi stessi. Ve lo siete meritati.>

<Ottimo.> disse Jack Monroe <Avevo giusto un programmino per il fine settimana… chiamatemi solo se arriva un altro aspirante conquistatore del Mondo.>

Imboccò l’uscita prima che Steve potesse dirgli qualcosa.

Bucky stava per fare lo stesso ma Steve lo fermò:

<Vorrei che venissi con me, Buck… ho qualcosa da mostrarti.>

<Di che si tratta?>

<Vedrai.> si limitò a rispondere Steve.

 

Villa Carter. Virginia.

 

I più giovani, nel vederlo, lo avrebbero accostato a “Renegade” il personaggio che rese celebre Lorenzo Lamas nei primi anni 90, solo coi capelli più corti... e non avrebbero sbagliato, dato che Jack Monroe aveva molto in comune con il protagonista di quel telefilm (di cui per un certo tempo aveva perfino assunto il look)  anche se il modello a cui lui si ispirava, ad essere precisi, era il Marlon Brando de “il Selvaggio”, vero e proprio eroe generazionale per i ragazzi cresciuti negli anni 50 come Jack. L’animazione sospesa e il siero del supersoldato avevano fatto sì che Jack ancora oggi sembrasse addirittura più giovane di quando Brando girò la pellicola, ma la sua ammirazione per quel film era rimasta immutata, anche dopo tutti quegli anni.

Il cancello della villa si aprì e la moto rombante entrò nel vialetto. Nonostante il giubbotto di pelle e l’atteggiamento da duro, Jack era nervoso come un ragazzino, anche se non lo dava a vedere. Dentro quella villa stava la ragazza che voleva conquistare, Sharon Carter. Una donna con una corazza emotiva più dura del ferro, difficile da scalfire, ma che forse proprio per questo aveva rapito il cuore di Jack. Trattenendo il respiro suonò alla porta; ad aprire, com’era prevedibile, l’impeccabile maggiordomo ….

<Salve. Sharon è in casa?>

<Sono spiacente d’informarla che la signorina Carter è assente. È andata a trovare un vecchio amico, Mr. Cox.>

<Cox? Dave Cox?> chiese, sorpreso.

<Proprio lui. È un vecchio amico di miss Carter da diversi anni.>

<Ah...> fu la sola reazione di Jack, sorpreso dalla risposta.

<Devo riferirle un suo messaggio?>

<Uh no... no grazie io... ripasserò.> rispose, con aria sconsolata, dopodiché si rimise gli occhiali da sole a specchio e risalì sulla sua moto.

 

Richmond, Virginia. Casa Cox.

 

<Non osare dirmi che è tua!> disse Julie Cox, riferendosi alla bambina bionda che Sharon aveva portato con se e che stava giocando nell’altra stanza con il suo figlioletto Cody.

<Eddai cara... te l’ho già detto, Sharon è solo un amica.> le rispose David.

<Dave Cox, non provare a prendermi in giro capito?>

<Non ti sto prendendo in giro, credimi! È venuta a trovarmi e a fare una cavalcata, come ai vecchi tempi.>

<Già è proprio la storia della “cavalcata” che non mi va a genio…>

<Ora straparli, tesoro...>

In soggiorno, Sharon Carter si sentiva imbarazzata; non sapeva che il suo vecchio amico Dave si fosse sposato e avesse un figlio... da quando era “tornata in vita” non aveva avuto occasione di andarlo a trovare, e si era sentita in colpa per averlo trascurato per tutto questo tempo. In passato, ogni volta che lei si sentiva giù, Dave le aveva offerto il suo appoggio.

Ora che tutt’a un tratto s’era trovata - suo malgrado - con parecchio tempo libero aveva pensato di colmare quella lacuna... ma non aveva riflettuto abbastanza sul fatto che rispuntare nella vita di Dave gli avrebbe procurato guai.

<Ascolta Julie, continueremo più tardi va bene? Io porto Sharon al maneggio, tu resta qui coi bambini... ci vediamo stasera ok? Ti amo!> disse uscendo dalla porta e trascinando Sharon con se. Julie li fulminò entrambi con un’occhiataccia.

<Non pensare che sia finita qui. Affatto.> disse rivolta a suo marito <E non osare fare tardi. Ti strapperò l’altra braccio, se vi tratterrete più a lungo del dovuto.>

<Dave, mi dispiace.> disse Sharon mortificata <Avrei dovuto chiamare prima... non sapevo che...>

<Non ti devi preoccupare Sharon> rispose l’amico cercando di minimizzare <È bello vedere che stai bene... quante volte capita nella vita di un uomo che un amica che credevi morta venga a bussare alla tua porta?> le rispose lui, sorridendole  <E poi, la tua bambina è stupenda. Lei e Cody hanno legato subito. No, davvero, sono contento che tu sia passata. Mi sei mancata.>

<Anche tu Dave.>

Una volta che i due raggiunsero il maneggio e sellarono i cavalli, la tensione e l’imbarazzo vennero meno e per qualche momento, tutti i problemi e i brutti ricordi non contarono più nulla. Era raro vedere sorridere Sharon. Dave Cox era uno dei pochi che riusciva a strappargliene uno, e sapeva che con una bella cavalcata tra i boschi sarebbe riuscito a farla rilassare.

<Dio, quanto tempo è che non mi sentivo così...> disse la ragazza.

<Si capisco cosa intendi.>

<Ne avevo davvero bisogno Dave... grazie mille.>

<Si ho notato che eri alquanto... tesa. E ti conosco troppo bene per sapere che non era per via di Julie.>

Il sorriso di Sharon si spense come una candela al vento, tornando ad avere l’espressione seria di sempre.

<Già...>

<Cos’è che ti affligge, Sharon?>

<È ... una cosa lunga. Penso di aver... passato il segno.>

D’un fiato Sharon raccontò a Dave di come avesse torturato un prigioniero e che a causa di questo Steve l’aveva espulsa dal gruppo.[6] Ovviamente non fece il nome di Steve, che Dave conosceva bene.

Al termine del racconto lo guardò temendo di vedere la disapprovazione nei suoi occhi ma quel che vi lesse fu compassione e forse anche comprensione e questo era quasi peggio.

Dopo un lungo silenzio Dave parlò:

<Sai che non posso scusare ciò che hai fatto. Io sono contrario a qualunque forma di violenza e quello che hai fatto è stato…>

Lasciò volutamente la frase in sospeso e Sharon abbassò lo sguardo.

<Insomma ti ho deluso…> disse infine <… sono una specialista in questo.>

<Mi avresti deluso se non avessi capito di aver sbagliato e la cosa non ti tormentasse. Non sei così dura e cinica come vuoi apparire.>

Sharon abbozzò un sorriso.

<Non dirlo in giro: ho una reputazione da difendere.>

Continuarono a cavalcare in silenzio, poi Dave chiese:

<Sharon… perdonami ma devo proprio domandartelo: è Steve Rogers il padre di Shannon?>

<Me lo hanno chiesto in molti e a loro ho risposto che non erano fatti che li riguardassero.>

<E a me cosa rispondi? Non mi offenderò se la risposta sarà la stessa.>

Un altro sorriso.

<Con te è diverso.> rispose Sharon.

 

 

New York, Brooklyn, quartiere di Red Hook

 

Bucky Barnes indossava un paio di jeans, una camicia azzurra e un giubbotto di pelle, Donna Maria Puentes un abitino rosso fuoco così attillato da far venire spontaneo chiedersi come fosse riuscita ad indossarlo e scarpe con tacchi così alti da chiedersi come facesse a mantenersi in equilibrio. Bucky che in fondo era pur sempre un ragazzo degli anni 40, si chiese se non fosse troppo appariscente ed ebbe il sospetto che lo facesse apposta.

Steve era il più formale, con un completo blu e camicia bianca. Unica concessione, la mancanza di una cravatta e il colletto slacciato. Aprì la porta dell’appartamento e facendo passare Bucky disse.

<Ecco qua. Questo era il mio appartamento prima che… che mi trasferissi a lavorare in Connecticut. È completamente arredato e oltre a questo piano con le camere da letto, il soggiorno e la cucina, c’è una piccola mansarda con lucernario ed anche un seminterrato adattato a palestra perfettamente insonorizzato.>

<Interessante… ma perché mi hai portato qui?> chiese Bucky.

<Perché ora è tuo.> rispose Steve mettendogli in mano le chiavi. <A me non serve a molto ormai ed ho pensato che fosse ora che avessi un posto tutto tuo. Non era giusto che dormissi in una branda della base. Devi farti una vita fuori dal gruppo e questo è il momento migliore per cominciare.>

<Io… non so cosa dire.>

<Penso che un grazie basterà.> intervenne Donna Maria <Ora ci scuserai ma dobbiamo scappare. Ho preparato un programmino per me e Steve e non prevede terzi incomodi, se capisci quel che intendo.> e gli fece l’occhiolino.

<Capisco benissimo.> rispose Bucky <Beh… che aspettate a filarvela? Io resterò qui ad acclimatarmi nel mio nuovo appartamento.>

<Sei sicuro che…> iniziò a dire Steve.

<Ne sono sicurissimo “papà”, sono grande ormai.>

<L’hai sentito no?> aggiunse Donna Maria prendendo Steve sottobraccio <Andiamo.>

Una volta che furono usciti Bucky si sedette su una poltrona. Si guardò il bracco sinistro e scosse il capo. Una vita sua… non sarebbe stato facile.

 

 

In un grill bar sulla strada per New York.

 

S’era seduto al bancone e aveva ordinato un hamburger con bacon e una birra media. Jack aveva mangiato in posti come questo centinaia di volte, durante i suoi anni da girovago; era quel genere di locali che brulicano di motociclisti. Il juke box mandava “Born to be Wild” degli Steppenwolf, un inno generazionale per ogni centauro che si rispetti. Jack però non riusciva a godersi né il posto né il cibo, perché per lui era un ripiego dell’ultimo momento, ben lontano dal programma per la giornata che s’era prefisso; ambiva ad un gita fuori porta con Sharon, un giro un moto e magari una sosta in un posticino romantico, con una bella vista. L’assenza della bionda aveva mandato a monte i suoi programmi.

“Accidenti” pensava “Da quando Sharon ha lasciato la squadra è diventato sempre più difficile poterla vedere, inoltre non abbiamo mai un momento libero, e per una volta che Steve ci concede una libera uscita, lei è a spasso altrove con... Dave Cox. Mi ricordo bene di lui... qualche anno fa se la passò male, per quella faccenda del Teschio,[7] venne ipnotizzato e per poco non mi fece la pelle. Chi cavolo lo sapeva che quei due si conoscevano? E che c’entra una tipa tosta come Sharon con quel vigliacco d’un pacifista? sbuffò, mandando giù un sorso di birra. I suoi occhi si posarono sulla cameriera dietro al bancone. Il genere di donna bella che non fa nulla per nasconderlo; stivali stile cowgirl, short attillati e camicetta annodata sotto il seno, che ne mettevano in risalto le forme generose. Aveva i capelli biondi, sebbene non naturali, che ne risaltavano l’abbronzatura. Tutti nel locale le avevano appiccicato gli occhi addosso... anche il bestione con la camicia a quadri smanicata.

<Jesse ... dobbiamo parlare!> disse con tono autoritario

<Lasciami perdere Wyatt; ti ho già detto che è finita!>

<”È finita” un corno; non mi hai dato nemmeno il tempo di parlare.>

<Che c’è da spiegare? Ti ho visto con quella, era tutto fin troppo chiaro!>

<Non hai capito... non significava nulla...>

<Vattene al diavolo. Lasciami in pace!> disse lei voltandogli le spalle.

<Piantala. Vieni qui!> esclamò lui afferrandola per un braccio.

<Lasciami! Mi fai male!>

Il tizio, Wyatt, era davvero grosso e nessuno sembrava intenzionato ad intervenire in soccorso della bella Jesse. Nessuno. Tranne Jack.

<Ehi stronzo> disse alzandosi dallo sgabello <Perché non la pianti e te ne torni dalla fogna da cui sei uscito?>

<Che cazzo vuoi? Non t’impicciare!>

<Voglio che la lasci andare. Subito.> disse, con fare minaccioso.

<Ehi, e tu chi cazzo sei per dirmi quello che devo fare?>

<Quello che sta per farti il culo.>

Quella risposta fu sufficiente a far scattare Wyatt che cercò di colpirlo. Mossa prevedibile, almeno per uno coi riflessi di Jack, che schivò il pugno e ricambiò il gesto, colpendolo al volto. Aveva parecchia rabbia da sfogare, Jack Monroe e quel tizio aveva scelto il giorno sbagliato per far rissa: la sua testa divenne un punching ball, che Jack colpiva ripetutamente. All’improvviso, e in maniera del tutto inaspettata, fu proprio la stessa Jesse a fermarlo, saltandogli sulla schiena.

<STA FERMO, LASCIALO! LASCIALO STARE!> gridò disperata.

Wyatt era a terra, con la faccia sanguinante e piena di lividi. Non appena Jack terminò il suo pestaggio, la ragazza si gettò su di lui.

<Piccolo... piccolo, rispondimi.... Oddio, come ti ha ridotto…ma perché l’hai fatto? Volevi forse ammazzarlo?>

<Lui... ti stava facendo …>

<Non l’avrebbe mai fatto... tu non lo conosci…> disse piangendo <Oh mio Dio... resisti amore, adesso ti porto in ospedale…>

Un attimo prima lo maledice e subito dopo piange per lui. Le donne sono davvero imprevedibili, pensò Jack, uscendo dal locale e saltando in sella alla sua moto.

 

 

Brooklyn, New York, quartiere di Brighton Beach.

 

La giovane donna bionda era proprio il tipo che attira l’attenzione degli uomini che passavano per la strada. Troppo bella per essere un tipo qualunque. Poteva essere una modella o qualcosa di simile.

Yelena Belova ignorava gli sguardi su di lei, concentrata sui suoi pensieri. Aveva appena cenato in uno dei classici locali del luogo che offriva una più che discreta cucina russa e stava dirigendosi al suo appartamento a grandi passi per un’altra serata solitaria.

L’uomo che la stava seguendo rimase per un attimo perplesso non vedendola più davanti a lui ma visto che c’erano due sole possibilità provò la stradina sulla destra. Si senti afferrare di colpo e sbattere contro un muro e poi sentì la pressione di qualcosa di metallico contro la nuca.

<Hai dieci secondi per dirmi chi sei e perché mi stavi seguendo prima che ti riduca ad un vegetale.> disse la ragazza <E non provarti a dirmi che non mi stavi seguendo perché non sono una stupida e non mi piace essere presa per tale.>

<Non ho intenzioni ostili, Tenente Belova.> rispose l’uomo in Russo <E so bene che non si scherza con la Chernaya Vdova.>

<Chi sei?> ribatté Yelena nella stessa lingua.

Con una certa fatica l’uomo estrasse un tesserino e lo passò alla ragazza che lo esaminò alla fioca luce del vicolo.

<Tenente Ivan Borisovitch Baryshnikov, G.R.U.> legge <Ti manda Serov?[8] Come mi hai trovato?>

<Per… per puro caso. Speravo di trovare qualche traccia qui in questo quartiere dove abitano molti immigrati russi e l’ho vista uscire dal ristorante.>

Yelena sospira: la sua privacy è ancora salva. Non vuole affatto che i suoi vecchi datori di lavoro scoprano il suo indirizzo.

<Perché mi cercavi?>

<Devo riferirle un messaggio del Colonnello Serov da parte dell’Acquario.[9]> risponde l’uomo <Il Governo ha deciso che dopo gli ultimi avvenimenti in patria,[10] deve cessare di collaborare con lo S.H.I.E.L.D. dal momento che la Russia ha interrotto i suoi legami con quell’organizzazione.>

Yelena rimane spiazzata. Sapeva dei problemi della sua madrepatria con lo S.H.I.E.L.D. ma finora nessuno le aveva detto niente e lei aveva fatto finta di nulla. La squadra di cui fa parte le piace e non le va davvero l’idea di lasciarla.

<Dì a Serov che verrò a parlargli presto.> replica e poi rilascia il suo morso di vedova a bassa intensità, quanto basta perché l’ufficiale russo svenga.

<Così impari a non seguirmi… o a farlo meglio.> commenta lasciando il vicolo.

Si sente turbata. Sapeva che sarebbe arrivato prima o poi il momento in cui le sue lealtà sarebbero entrate in conflitto ed ora deve prendere una decisione.

Ha bisogno di un consiglio ed a New York conosce una sola persona di cui si fida abbastanza da chiedergli aiuto.

 

 

Un luogo segreto.

 

Due donne, diverse all’apparenza ma molto simili nella sostanza.

Il nome della donna che aveva i capelli neri e lunghi e vestiva una versione al femminile della tuta dell’A.I.M. che terminava in una gonna lunga con spacchi laterali era Monica Rappaccini e si definiva la Scienziata Suprema dell’A.I.D. un acronimo che stava per Avanzate Idee di Distruzione, una costola dell’A.I.M. da lei stessa fondata e temibile rivale della casa madre. La sua specialità era la biochimica ed in particolar modo la preparazione di veleni ed altre sostanze tossiche. Era nata in Italia, a Padova, ma aveva compiuto la gran parte dei suoi studi negli Stati Uniti e in Gran Bretagna dove aveva conseguito un paio di dottorati. Cosa l’avesse spinta ad unirsi all’A.I.M. e poi ad uscirne per fondare una sua organizzazione non era chiaro.

L’altra donna era alta aveva i capelli biondi e occhi azzurri e attenti. Indossava un costume bianco con una vistosa scollatura, la metà superiore del viso era coperta da una maschera dello stesso colore. Il suo nome era Karla Sofen ma era meglio conosciuta come Moonstone. Anche lei come la Rappaccini, poteva farsi chiamare dottoressa, in psichiatria per la precisione, ma erano le sue abilità come supercriminale che interessavano la sua committente.

<Ha già fatto un buon lavoro per me recuperando quei… reperti biologici che mi interessavano, dottoressa Sofen,[11] le interessa un incarico simile?>

<Non saprei…> rispose Moonstone <… è stato un incarico piuttosto noioso e non ho mai capito perché volesse quel campione del…>

<E non deve interessarle.> tagliò corto la Rappaccini <Ora vorrei che lei guidasse una speciale squadra d’assalto contro un’installazione governativa.>

<Io guidare una squadra? Non so… ho già provato il gioco di squadra e non ha funzionato granché. Preferisco lavorare da sola.>

<Anche se le offro il triplo del suo vecchio onorario?>

<Uhm… in questo caso potrei ripensarci. Mi dia i dettagli.>

Monica Rappaccini non poté trattenere un sorriso.

 

New York.

 

La coppia entrando attirò gli sguardi di tutti: lei, prosperosa e formosa come una pin up, con quella folta chioma corvina sembrava uscita da un calendario di Playboy, ed era divenuta l’oggetto delle attenzioni di tutti gli uomini del locale... compreso il cameriere che, mentre li accompagnava al loro tavolo, faticava non poco a non sbirciarle nella generosa scollatura, ma la cosa non la metteva minimamente a disagio: Donna Maria si divertiva a provocare reazioni come quelle fin da quand’era adolescente, con malizia ed allegria.

Le signore erano più contenute, ma anche loro avevano il loro bel vedere: l’uomo biondo indossava un impeccabile abito blu, era alto e ben piazzato, ma aveva un andatura elegante, e un fascino che nulla aveva da invidiare a quello di divi del cinema come Robert Redford o Brad Pitt... ma era troppo modesto e umile per accorgersi di possedere quel suo sex appeal.

<Spero che non ti dispiaccia che abbia scelto la cucina messicana, Steve.> gli chiese lei.

<No affatto. È da parecchio che non venivo in un posto del genere... ottima scelta, brava.>

<Bene. Quando ho accettato di seguirti e tornare qui negli Stati Uniti[12] sapevo che l’unica cosa che mi sarebbe mancata di casa era la cucina. So che qui fanno alcuni piatti come quelli del mio paese... devi assolutamente provare le fajitas, sono deliziose.>

<D’accordo allora. Seguirò il tuo consiglio.>

<Sai, sono proprio contenta di avere una serata romantica tutta per noi... sono proprio felice per questa “libera uscita”.>

<Si beh... anch’io. I ragazzi se la sono meritata, dopo tutto quello che abbiamo passato... specie dopo Washington.> seppur per un attimo, l’espressione del viso di Steve divenne corrucciata e anche se subito cercò di dissimulare, ma Donna Maria la percepì.

<Steve... non starai pensando al Teschio Rosso, spero.>

<... non posso farne a meno. Scusa, m’ero ripromesso di non farlo, è solo che... ho combattuto contro quel mostro per quasi tutta la mia vita adulta. Sono diventato Capitan America proprio per contrastarlo. La mia esistenza è legata a filo doppio con lui. Volevo che pagasse per i suoi crimini... proprio come doveva fare Hitler, ma invece qualcuno gli ha sparato. Già una volta ho stretto fra le mani il suo cadavere[13] e m’ero convinto che fosse deceduto, ma anche quella volta era riuscito ad ingannare la morte; mi chiedo se anche questo, il cecchino e tutto il resto, non faccia parte di qualche assurdo piano di fuga.>

<Ascoltami bene> disse lei, decisa <Anche qualora avessi ragione, stai pur certo che non lo scoprirai certo stasera. Io voglio che mi guardi e mi prometti che non penserai più al lavoro, va bene? Devi promettermi che ti rilasserai e ti divertirai... l’unica cosa rossa a cui devi pensare è il mio vestito. Ma posso pure togliermelo, se la cosa ti crea fastidio.>

Steve riprese a sorridere.

<Oh sono sicuro che tutto il locale apprezzerebbe che te lo chiedessi.>

Lei gli sorrise e gli strinse la mano.

<Ecco bravo così mi piaci.>

Steve fece una risata genuina. Sì: aveva davvero bisogno di rilassarsi. Non poteva essere sempre il leader ferreo o il severo professore, ammesso che i suoi allievi lo vedessero così, in fondo era pur sempre soltanto un uomo.

<Sarà una bella serata.> disse convinto.

<E aspetta che torniamo a casa…> ribatté lei con un pizzico di malizia

Lo sguardo di Steve venne attirato fuori dalla vetrina, dove vide alcuni ragazzi rincorrerne un altro, riuscire a raggiungerlo e a trascinarlo di forza in un vicolo.

<Scusami un attimo, Maria...> si congedò, uscendo dalla sala.

<Ehi ma cosa...> esclamò la ragazza, poi si voltò e dalla stessa vetrina osservò la scena, intuendo cosa l’avesse fatto scattare.

<-SIGH- e che avevo appena finito di dire?> sbuffò. “Non appena vede qualcosa che non va è pronto a correre, senza esitare” pensò. Era uno degli aspetti di Steve che le piacevano di più e che lo rendevano così interessante, ma adesso notava come quel suo lato non si fermava mai. “Sarebbe stato sempre così?” si domandò. “Riuscirò mai ad averlo tutto per me, o ci sarà sempre qualcosa o qualcuno a portarmelo via?” Ma mentre si poneva queste domande gli era già dietro, sebbene con quei vertiginosi tacchi non riuscisse a stargli al passo.

Nel frattempo, fuori, la banda aveva iniziato a pestare il ragazzo che avevano inseguito.

<Poche stronzate, piccolo spione... caccia fuori la grana o ti giuro su dio che ti rompiamo le ossa!>

La vittima non era molto coriacea e tossiva a causa del pugno allo stomaco che s’era preso, e faticava a riprendere fiato.

<Mi sto davvero stancando, dico davvero> aggiunse il loro capo, colpendolo con un calcio <Basta così, lasciatelo!> disse loro una voce autoritaria che non ammetteva repliche, chiaramente quella di Steve.

<Non t’impicciare vecchio, stanne fuori!>

“Vecchio”.... effettivamente Steve lo era, essendo nato negli anni 20, ma non dimostrava più di 30-35 anni... chi poteva definirlo in quel modo, dunque? Osservò bene gli assalitori e vide che si trattava di ragazzi minorenni ... 16-17 anni al massimo. E già pronti a compiere pestaggi come una gang. Era questa la cosa che più lo faceva star male.

<Non ho mai potuto sopportare i bulli> rispose <Lascialo, non te lo ripeterò un’altra volta, o ti darò quel che meriti!>

I bulletti non sono altro che dei codardi, pronti a prendersela con i più deboli, ma pronti a defilarsi quando c’è da affrontare un avversario in grado di difendersi. Steve era solo ma decisamente più grosso di loro, e seguendo le indicazioni del loro capo, il quartetto si dileguò alla svelta, non prima di aver sparato insulti e minacce.

Quant’amarezza c’era nel cuore di Steve in quel momento. Vedere un ragazzino magro, per di più biondo, venire pestato in un vicolo gli riportava alla memoria la sua infanzia, e notava come tristemente certe cose non cambiano mai.

<Steve, che succede?> chiese Donna Maria arrivando sul posto.

<Bulli. Se la stavano prendendo con questo ragazzo> disse soccorrendo il malcapitato <Ehi figliolo, tutto a posto?> domandò, col solito fare paterno.

<S-Si, grazie... non è niente, e solo un graffio.> rispose il ragazzo. Era anch’egli molto giovane.

<Dì, li conosci quelli? Posso andare dai loro genitori a dirgliene quattro e...>

<N-No, no... non s’immischi... non è necessario, veramente.>

<Ascolta, non ti devi vergognare. Credimi, so quello che stai passando; ci sono passato anch’io alla tua età. Senti, hai bisogno di essere accompagnato? Posso portarti in ospedale, o chiamare tua madre e ...>

<E NON IMPICCIARTI, CAZZO!> rispose di scatto il ragazzo, liberandosi con uno strattone dalla presa di Steve e correndo via.

<Piccolo ingrato maleducato...> sentenziò Donna Maria osservando la scena <Steve, lascialo perdere, lui... ehi cos’hai?>

<Nulla Maria, solo... non so c’era qualcosa di vagamente familiare in lui, non so dirti bene cosa.>

Le rispose lui, vedendo il giovane allontanarsi a gambe levate.

 

 

New York, Brooklyn, Quartiere di Red Hook.

 

Sapeva che era lei ancora prima di aprire la porta naturalmente. Era nella sua natura essere sospettoso e ne aveva ben ragione in fondo: dopotutto chi poteva sapere che l’appartamento era di nuovo occupato quando lui stesso era lì da poche ore? Difficile che fosse una bella vicina rimasta senza zucchero come accadeva nelle vecchie commedie brillanti. Quando vide di chi si trattava non sapeva se essere contento o perplesso. Sicuramente non era venuta per lo zucchero ma per saperne di più c’era un solo modo.

Bucky Barnes aprì la porta e disse:

<Ciao Yelena. Come mai sei qui?>

<Ho bisogno del tuo aiuto… di un consiglio. > rispose seria Yelena Belova entrando.

Mentalmente Bucky si maledisse per essersi fatto trovare in tenuta da allenamento, canottiera e pantaloncini da boxeur, e sudato per la seduta in cui era impegnato quando lei aveva suonato nonché per aver lasciato sul tavolo in bella vista il cartone della pizza a domicilio. Si rammaricò anche che lei potesse vedere bene il braccio metallico ora che lui era “in borghese”. Si dette dello stupido per questo atteggiamento ma non ci poteva far niente, una conseguenza dell’essere un residuato degli anni 40 probabilmente.

<Io dare consigli a te?> replicò sorpreso <E comunque come sapevi dove trovarmi?>

Lei sorrise.

<Sono una spia, ricordi? Quando sono arrivata qui ho fatto delle ricerche sul Comandante Rogers e a parte una sua scheda nel sito della Lee Academy, l’unica altra cosa che ho trovato è stata l’indirizzo di quest’appartamento. Ti ho cercato al Quartier Generale e visto che non c’eri e avevano portato via le tue cose, ho provato qui.>

<Capisco.>

Si sedettero l’uno di fianco all’altra su un divanetto e Bucky aggiunse:

<Vuoi dirmi qual è il problema?>

E lei gli narrò dell’incontro di poco prima e di quello che le avevano chiesto… o meglio: ordinato… di fare.

<Non so cosa fare.> disse infine <Se rispondo di no, diverrò una fuorilegge nel mio stesso paese e non potrò più rientrare in patria ma se obbedisco dovrò andarmene e lasciare la squadra e io non vorrei farlo… mi trovo bene con voi.>

Parlando Yelena aveva appoggiato la mano su quella di Bucky e lui l’aveva istintivamente stretta

<Capisco il tuo dilemma ma davvero non saprei come… aspetta… ho avuto un’idea. Non so se può funzionare, dipende molto da quanto sono forti ancora le rivalità tra i servizi segreti russi e da quanto tu sei disposta a fare.>

Le espose la sua idea e lei scosse la testa.

<Non so… mi sentirei come una doppiogiochista… anche se… se funziona io potrei servire il mio Paese e continuare ad essere un membro della squadra.>

<Io ne sarei felice.> disse Bucky d’impulso <Mi dispiacerebbe se tu te ne andassi proprio ora che cominciavamo a legare.>

<Sì… ce la siamo cavata bene insieme nell’Isola del Teschio.>[14]

Yelena esitò e fissò i suoi profondi occhi azzurri negli enigmatici occhi nocciola di lui per poi sfiorargli il viso con la mano.

<Forse…> disse infine <… forse non è solo per chiederti un consiglio che sono venuta qui.>

D’impulso gli buttò le braccia al collo e lo baciò. Bucky rispose al bacio ed istintivamente la strinse a sé. Quando le loro labbra si staccarono disse:

<Yelena… sei sicura di quello che stai facendo?>

<Io… credo che non sono mai stata più sicura di qualcosa come lo sono di questo ora.>

<Io… non sono nemmeno un uomo intero ormai…>

<Parli di questo?> chiese lei sfiorandogli il braccio bionico <Non mi importerebbe nemmeno se non l’avessi. Non sei meno uomo per questo.>

Lo baciò ancora e Bucky smise di farsi domande.

 

 

Da qualche parte negli Stati Uniti

 

La donna avanzò nel salone guardandosi attorno circospetta. La metà superiore del suo volto era celata da una maschera dorata. I lunghi capelli rossicci ricadevano sulle spalle. Indossava una calzamaglia scura con un corpetto in cotta di maglia di colore violetto, i lunghi guanti e stivali erano di metallo come la maschera e dello stesso colore.

<Benvenuta Snapdragon.> la accolse una voce di donna.

Al centro della stanza c’era l’inconfondibile figura di Moonstone.

<E così sei tu che mi hai contattato.> commentò la supercriminale

<È stata la nostra comune datrice di lavoro in realtà.> rispose Moonstone <Io ho ti ho solo consigliata come ho consigliato gli altri.>

Gli altri?>

<Sì: non saremo sole. Li conoscerai a tempo debito… se accetterai l’incarico.>

<Nel messaggio si parlava di un lavoro ben pagato ed ho bisogno di soldi. Non mi tiro indietro ma… vorrei sapere cosa dovrei fare.>

Moonstone sorrise nel rispondere:

<Solo una piccola rapina… in un supersorvegliato laboratorio dello S.H.I.E.L.D.>

 

 

CONTINUA

 

 

NOTE DEGLI AUTORI

 

 

Ed eccoci tornati alla normalità, qualunque cosa voglia dire per i nostri protagonisti, dopo i tumultuosi eventi dettagliati nello scorso episodio e su Vendicatori #89/90. Per una volta ci siamo soffermati pressoché esclusivamente sulla vita privata dei nostri personaggi ma abbiamo anche messo in moto eventi che avranno non poche ripercussioni nei prossimi episodi.

In attesa di scoprire cosa accadrà, un po’ di spiegazioni su fatti e personaggi di ciò che avete appena letto.

1)    David Cox è un personaggio creato da Steve Englehart & Sal Buscema su Captain America Vol. 1° #163 datato luglio 1973. Ha perso il braccio destro in guerra (originariamente quella del Vietnam, ora una non meglio specificata operazione bellica a cu gli Stat Uniti abbiano preso parte negli ultimi dieci anni) e l’esperienza lo ha fatto diventare un pacifista convinto che non userebbe la violenza nemmeno per autodifesa. Era innamorato di Sharon Carter ma ovviamente all’epoca lei aveva occhi solo per Steve Rogers. In seguito siamo venuti a sapere che si era sposato ed aveva avuto un figlio. Il Teschio Rosso gli fece gli fece il lavaggio del cervello e lo dotò della cappa e del potere dell’Uccisore di Demoni per usarlo contro Capitan America nella leggendaria sequenza di storie che culminò in Captain America Vol. 1° # 300 “Das Ende”. Fu in quell’occasione che Nomad lo conobbe.

2)    Due paroline su Moonstone. Non sappiamo quanti di voi l’avessero riconosciuta nel #5 nei panni della psichiatra Kate Svenson chiamata a consulto per Bucky o si ricordassero della sua presenza dopo tanto tempo. Ora sappiamo per conto di chi ha effettuato un furto di non meglio specificato “materiale biologico”. Cosa ne voglia fare la Rappaccini non è ancora chiaro… ma lo sarà.

3)    Nota di continuity: Sin e Crossbones riappariranno in Capitan America MIT #60 per un piano di vendetta contro l’attuale Sentinella della Libertà ma hanno anche un piano per vendicarsi di Steve Rogers. Lo metteranno in atto? Non pretenderete mica che ve lo diciamo adesso, vero?

Nel prossimo episodio: un commando di supercriminali all’assalto di un’installazione S.H.I.E.L.D. ma li aspetta una sorpresa. Volete saperne di più? Leggete la storia.

 

 

Carlo & Carmelo



[1] È avvenuto su Vendicatori MIT #90.

[2] Intende Jim Hammond, la Torcia Umana Originale.

[3] Se non sapete di cosa stiamo parlando, allora non siete veri Marvel fans. -_^

[4] Nell’episodio #18.

[5] Avanzate Idee Meccaniche.

[6] Nell’episodio #12.

[7] Captain America Vol. 1° #293/300 (In Italia su Capitan America & I Vendicatori #36/42).

[8] Il colonnello Anatoly Vladimirovich Serov, ufficialmente vice addetto militare preso l’Ambasciata Russa a Washington D.C. ma in realtà capo della sezione americana del servizio segreto militare russo, meglio noto come G.R.U.

[9] Nomignolo della sede del G.R.U. il servizio segreto dello Stato Maggiore delle Forze Armate Russe.

[10] Narrati in The Others #29/35 e Marvel Knights #60/63.

[11] È avvenuto nell’episodio #5 ve ne eravate accorti?

[12] Nell’episodio n. 17.

[13] Su Captain America Vol. 1° #300/301 (In Italia su Capitan America & I Vendicatori, Star Comics, #42.

[14] Ovvero nello scorso episodio.-